Trovarsi di fronte ad un minore presunta vittima di abuso non è mai facile, rientra anzi tra le situazioni in cui nessuno mai vorrebbe o dovrebbe imbattersi. Qualunque sia il ruolo, nella vita del bambino, dell’adulto coinvolto nella vicenda, sia esso un medico, un insegnante, un parente o un genitore, la prima cosa che chiunque vorrebbe fare è aiutare il piccolo a parlare, a tirar fuori tutto il male che lo affligge e tutto il disagio che quella brutta esperienza gli ha provocato.
“Non parla perché è traumatizzato” questa è una delle primissime cose che si pensa quando il bambino non riesce a dire e ad esternalizzare la vicenda. Così, si finisce per spronarlo a dire tutta la “verità”, cercando di metterlo a suo agio, in modo da rendergli più facile il racconto, facendo domande su domande, talvolta anche specifiche, perché si ritiene che il bambino potrebbe provare vergogna nel riferire alcune circostanze in cui si sarebbe, suo malgrado, ritrovato.
Si parte con le domande, passando poi per i disegni, rendendo più facile al bambino la proiezione dei suoi vissuti negativi su di un foglio di carta, così da rendergli meno “imbarazzante” e più distaccata la descrizione dei fatti.

Tutto per la tutela del bambino.

Sebbene queste siano modalità piuttosto diffuse che hanno come scopo unico quello di tutelare il bambino, di fatto, sono proprio queste stesse modalità che rischiano di comprometterne il suo interesse e la sua salvaguardia.
In questi casi, infatti, il rischio di inquinare la prova dichiarativa è assai elevato.

Un coinvolgimento affettivo verso quel bambino, ad esempio, potrebbe portare l’adulto di riferimento a porre, suo malgrado, domande suggestive in cui sono presenti alcune parti di risposte, inducendolo, così, a riferire elementi, fino a quel momento, a lui ignari. Così una semplice domanda come “dove ti ha toccato?” oppure “chi ti ha fatto del male?”, di fatto, implicano rispettivamente la certezza che qualcuno lo ha toccato o che qualcuno gli ha fatto del male: il minore, infatti, dovrà solo indicare, nel primo caso, una precisa parte del corpo e, nel secondo, una precisa persona.
Domande chiuse a cui il bambino dovrà rispondere solo “si” o “no” come “è stato lui?” o “eravate lì?”, di fatto, lasciano poco spazio di risposta creando nel bambino, non di rado, uno stato di confusione che lo porterà a dare le prime risposte che gli sembrano più corrette.
È bene evidenziare che i bambini tendono ad assecondare i propri adulti di riferimento, perciò, non sono rari i casi in cui, posti di fronte a domande dirette e con poco margine di scelta, possono colludere con le loro aspettative, assecondandole.

Perciò, anche se ben si comprende la preoccupazione di un genitore, agitato e impaurito dalla possibilità che il figlio abbia subito qualcosa di brutto o, magari, la posizione scomoda di un insegnante che cerca di sondare il terreno, con la speranza di riuscire eventualmente a raccogliere maggiori informazioni possibili sull’accaduto, spinto anche dalla presenza di alcuni presunti cambiamenti nei propri alunni, queste modalità non fanno altro che aumentare il rischio di compromettere, successivamente, l’intero iter investigativo e processuale.

Cosa fare?
Appena ricevuta una notizia di sospetto abuso sarebbe necessario accettarsi, in un primo momento, delle condizioni psicofisiche del bambino e, successivamente, demandare qualunque tipo di indagine a chi di competenza.

Cosa non fare?
Improvvisarsi esperti dell’argomento, anche in buona fede, ponendo il minore di fronte ad una serie di domande metodologicamente non corrette e adeguate per una raccolta delle dichiarazioni o, magari, chiedendogli di effettuare un disegno, in modo da valutarne il suo vissuto emotivo “traumatico” (da dimostrare).
Un atteggiamento investigativo e invasivo potrebbe involontariamente confondere e inquinare irrimediabilmente i ricordi del bimbo, specie se in tenera età, il quale sarà, in seguito, chiamato a raccontarli in contesti giudiziari.

Pensare alle dichiarazioni del minore al pari con un reperto sulla scena del crimine aiuterebbe non di poco le indagini: di fatti, ogni reperto ritrovato andrebbe al più presto raccolto, sigillato e conservato attraverso modalità specifiche, al fine di non renderlo inutilizzabile per le indagini; al contrario, un reperto maneggiato senza nessuna cautela da più persone e/o lasciato per troppo tempo alle intemperie, rischierebbe di divenire irrimediabilmente compromesso.
Allo stesso modo la testimonianza del bambino, che andrebbe raccolta soltanto da personale specializzato all’interno del contesto giudiziario.

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