“La nostra è una famiglia che potrei definire disfunzionale, ma tutti si vogliono bene e fanno del loro meglio”

Così inizia il racconto di Anna, la bimba protagonista de “La custode di mia sorella”, un film tratto dal romanzo di Jodi Picoult che narra le vicende di una famiglia interamente coinvolta e impegnata nell’esperienza di malattia della piccola Kate, seconda di tre figli.

Il romanzo, così come il film, tratta, in linea generale, di argomenti che non si discostano purtroppo così tanto dalle esperienze di vita reale. Una famiglia distrutta dal dolore provocato dalla presenza di un male incurabile, ma avvolta da un’ardente speranza che le cose possano migliorare.
In tali situazioni, accade spesso che i membri familiari più stretti stringano legami sempre più intensi, coinvolti nelle dinamiche di accudimento e cura del parente affetto dalla malattia. Cambiano le abitudini, cambia la quotidianità, si modificano le priorità e, talvolta, anche le occupazioni dei vari membri familiari.

Genitori che si allontanano dal lavoro per accudire il proprio bambino, sorelle che accantonano i propri interessi per passare del tempo con i propri fratelli, ma anche zii, cugini, nonni, tutti uniti e stretti da un legame intenso, forse anche invischiante, ma che in quel momento appare l’unico in grado di poter lenire la sofferenza dovuta non solo alla malattia, ma anche alla consapevolezza di esser del tutto impotenti di fronte al presentarsi di una malattia. Ad esser coinvolta, perciò, è l’intera famiglia allargata, stretta in maniera quasi totalizzante, non di rado invadente, sul nucleo familiare ristretto, con la speranza di poter ovviare, con la sua sola presenza, ad ogni possibile incombenza che si presenta. Spesso si creano alleanze molto intense, tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, legami indivisibili e ineguagliabili che, talvolta, si percepiscono inarrivabili dal resto della famiglia.
Se da un lato questo ipercoinvolgimento, fisico ed emotivo, riesce a sopperire alle esigenze quotidiane, dall’altro potrebbe diventare causa di possibili conflitti interni dovuti all’espressione di diversi opinioni sulla gestione della situazione, sulle terapie da seguire, sulle scelte da affrontare, sulle cure da impartire.

In famiglie in cui sono presenti bambini piccoli, non di rado capita che, a seguito della malattia contratta da un membro familiare, imparano a prendersi cura, ora del genitore, ora del fratello più grande o più piccolo, finendo con l’acquisire eccessivi carichi di responsabilità su compiti non adeguati alla loro età, ma congruo al contesto in cui, purtroppo, non possono fare a meno di trovarsi. Bambini adultizzati che imparano fin da subito a convivere e riflettere sul tema della morte, pensiero questo, a cui un bambino ancora piccolo non dovrebbe affatto avvicinarsi.

Seppur ben comprensibile, dinamiche del genere potrebbero, però, con il tempo, compromettere il naturale sviluppo del ciclo vitale della famiglia.

Dalla prima alla terza generazione, se non di più, ci si trova riuniti in un unico contesto, dal quale, con difficoltà si riesce a svincolarsi o, semplicemente, discostarsi, perché, laddove si pensasse e, con difficoltà, si ammettesse di voler una “pausa”, di voler staccare per riprendersi un po’, allora si verrebbe travolti dai sensi di colpa, per aver soltanto pensato ad una possibilità del genere, non comprendendo, invece, che il più delle volte, per poter riuscire ad aiutare gli altri, bisogna prima prendersi cura di sé ed acquisire quella lucidità che, talvolta, risulta necessaria in situazioni del genere.

La malattia non è mai una questione del singolo, ma diventa un “affare di famiglia”, e di tipo familiare, perciò, dovrebbe essere l’intervento psicologico volto ad aiutare l’intero sistema familiare nella consapevolezza prima e nell’accettazione dopo della situazione che, purtroppo si è presentata, dandogli i giusti strumenti e le adeguate strategie nell’affrontare e gestire adeguatamente non solo le varie fasi della malattia, ma soprattutto nel riuscire a viversi a pieno tutti quei momenti in cui, invece, la malattia lascia il posto a quella bella esperienza chiamata vita.

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