Ultimamente, molti sono i quesiti posti dai colleghi psicologi rispetto a come muoversi in situazioni in cui il destinatario dell’intervento psicologico sia una persona di maggiore età, quando questa sia un “neomaggiorenne” con “poca maturità” e “mancanza di svincolo dalle famiglie”.

Alcuni esempi:

  • Posso rilasciare informazioni al genitore che chiama preoccupato per il figlio diciottenne in terapia?
  • Una volta iniziato il lavoro individuale, posso inserire alcuni colloqui con i genitori o con altre figure significative di un pz diciannovenne?
  • Dato che chi paga la prestazione psicologica è il genitore, posso informarlo sull’andamento della terapia?

Ma come comportarsi in questi casi?
È possibile considerare la possibilità di ovviare al vincolo del segreto professionale solo per una “scarsa maturità del pz”?

In questo, l’art. 622 co.1 del Codice Penale parla chiaro:

Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 30 a euro 516

Così come il Codice Deontologico degli Psicologi (artt. 11 e 12) secondo cui lo psicologo è sempre vincolato al segreto professionale per cui “non rivela notizie, fatti o informazioni apprese in ragione del suo rapporto professionale, né informa circa le prestazioni effettuate o programmate”. La deroga al segreto professionale può avvenire solo “in presenza di un valido e dimostrabile consenso da parte del destinatario della prestazione professionale”, ma lo psicologo “valuta, comunque, l’opportunità di fare uso di tale consenso, considerando preminente la tutela psicologica dello stesso”.

Fatte queste premesse i livelli di riflessione sono due:

  1. A livello giuridico, è pacifico ritenere inderogabile il vincolo del segreto professionale qualunque sia l’età o lo status del pz di maggiore età destinatario dell’intervento, anche nel caso in cui fossero i genitori a pagare il trattamento sanitario.
  2. A livello psicologico, tutte le informazioni rilasciate a terze persone in segreto al pz vanno a compromettere l’alleanza terapeutica costruita con il pz, elemento necessario ed essenziale per lo svolgimento della terapia, tradendo di fatto la sua fiducia nei confronti del terapeuta.

Nessuna informazione, quindi, può essere rilasciata a terze persone al di fuori della terapia.
Diversamente, laddove si valutasse clinicamente efficace per l’andamento della terapia modificare il setting terapeutico prevedendo la convocazione di altri familiari, questo potrebbe avvenire solo previo consenso del pz stesso.

In questi casi, però, è bene evidenziare come sia indispensabile una modifica anche dell’iniziale consenso informato acquisito dal pz laddove, cambiando le modalità di intervento, si modificheranno anche molte altre variabili inizialmente considerate e sottoscritte insieme al pz stesso. In questi casi, è necessario riformulare il consenso informato anche per gli eventuali altri membri coinvolti in terapia.

Con l’entrata in vigore della Legge 219/17, infatti, viene “promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico […] In tale relazione sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo”.
In ogni caso, si riconosce alla persona destinataria dell’intervento sanitario “il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”.

Ciò detto, è pacifico ritenere che, al di là della varietà di approcci terapeutici che portano con sé una moltitudine di situazioni in cui il terapeuta si impegna in diverse modalità di intervento, di setting e, quindi, anche di convocazione nell’iter terapeutico o di sostegno, è bene chiarire che quello del consenso informato e del segreto professionale non possono essere considerati concetti opinabili.

L’acquisizione del consenso informato (aggiornato e comprensibile per il pz) e il vincolo al segreto professionale non è una scelta che il terapeuta, psicologo, può o non può intraprendere, alla stregua delle decisioni terapeutiche a cui ogni approccio psicologico può portare.

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