Prassi purtroppo ancora molto diffusa è attribuire allo psicologo un ruolo marginale all’interno di un contesto di cure palliative.
Spesso ci si trova a pensare che sia compito del paziente richiedere l’intervento della figura dello psicologo, che sia quindi il paziente o la sua famiglia a dover fare una richiesta diretta in modo da poter affrontare il disagio e la disperazione presentatisi a seguito della comunicazione della diagnosi. Se così fosse, il paziente, insieme alla sua famiglia, dovrebbe poter riuscire non solo ad esternalizzare senza alcun problema il suo vissuto emotivo, il suo malessere, il senso di dolore e frustrazione provocato dalla situazione, ma dovrebbe essere anche del tutto consapevole di avere il bisogno di farlo.
In tali situazioni, invece, accade più spesso di trovare da una parte pazienti chiusi in se stessi, che non presentano la benché minima voglia di parlare o di affrontare ciò che gli sta capitando e ancor più di farlo con “un estraneo”, dall’altra i familiari che, consapevoli dello stato emotivo della persona cara, anche quando sentono la necessità di richiedere un sostegno esterno per manifestare il proprio dolore o per ricevere aiuto nell’affrontare il malessere del paziente, decidono di non farlo: non possono permettersi di sentire o di provare alcuna fragilità o debolezza, perché ciò impedirebbe loro di riuscire a prendersi cura in maniera adeguata del proprio caro. Ciò che spesso ci si sente dire, infatti, è “non posso permettermi di crollare!”.
È in tali contesti, talvolta più di altri, che il ruolo dello psicologo non solo appare necessario, ma è indispensabile per una serie di motivi qui di seguito esposti.

1. Sostegno al paziente e alla famiglia

Lo psicologo prende in carico il paziente insieme all’intera sua famiglia. Sostegno e supporto durante l’intero processo della malattia saranno indispensabili e avranno l’obiettivo di individuare i bisogni individuali e relazionali dei singoli membri, di rielaborare e ridefinire insieme a loro il concetto di malattia e tutto ciò che ne comporta, il concetto di sé e della propria esistenza, di individuare le loro risorse e le loro capacità nel riuscire ad affrontare e gestire la situazione venutasi a creare, di contenerne il dolore e ridefinirne le paure e i timori percepiti, dando loro la possibilità di partecipare al processo di costruzione delle scelte terapeutiche più individualizzate possibili.
È molto importante concedere alla famiglia la possibilità di non doversi sentire invincibili, di poter eventualmente “permettersi di crollare” il tempo necessario per tornare a sentirsi umani e non “supereroi”, perché dotati di un sostegno adeguato in grado di aiutarli ad affrontare la situazione.
L’intervento psicologico, inoltre, sarà indispensabile per la presa in carico della famiglia dopo il decesso del paziente assistito: lavorare sull’elaborazione del lutto, ma ancor prima sulla possibilità che questa avvenga è essenziale affinché la famiglia riesca a reagire in seguito alla morte del proprio caro.

2. Formazione all’equipe

Nell’ambito delle cure palliative il ruolo dello psicologo consiste nell’occuparsi anche della formazione all’intera equipe, individuandone le risorse, individuali e relazionali, facilitandone la comunicazione non solo all’interno di essa, tra i vari membri del gruppo di lavoro, ma anche e soprattutto con il paziente e la sua famiglia. Indispensabile è che le informazioni che arrivano al paziente siano chiare e concise in modo da renderne più fruibile la comprensione e l’assimilazione attraverso l’uso di un linguaggio comune, facile ed elementare che gli restituirà una, seppur minima, sensazione di controllo sulla propria vita: maggiore sarà la cognizione che avrà sulla sua salute, sulla cura o sulla terapia da dover affrontare, maggiore saranno le risorse impiegate nel gestire la situazione.
Il lavoro con l’equipe sarà incentrato sulla consapevolezza dei loro vissuti emotivi legati anche alle relazioni intraprese con i pazienti, sugli obiettivi da raggiungere nei diversi casi clinici, sugli obiettivi raggiunti, ma anche su quelli non raggiunti, quindi sulla rielaborazione di interventi sempre più mirati e individualizzati.
La presenza di un contesto lavorativo favorevole influenza notevolmente la prestazione di ogni singolo membro dell’equipe, perciò il monitoraggio dovrebbe avvenire periodicamente anche tramite delle riunioni settimanali in cui si affronteranno temi legati ai casi clinici insieme alla valutazione di dinamiche interne al gruppo di lavoro.
L’equipe, inoltre, si troverà spesso a dover gestire momenti di frustrazione e sconforto dovuti ad eventuali peggioramenti o perdite dei pazienti terminali, essenziale sarà, perciò, l’intervento psicologico volto alla prevenzione del burnout presente, non di rado, in questi contesti.
Per gli stessi motivi, sarebbe necessaria anche la figura di un supervisore esterno.

3. Lavoro di rete

Per una presa in carico globale del paziente e della sua famiglia, inoltre, è essenziale, ad oggi fondamentale, lo sviluppo di una buona comunicazione e interazione tra i diversi componenti dell’equipe che se ne prende cura: psicologi, medici, infermieri, fisioterapisti, operatori socio-sanitari, assistenti sociali, tutti insieme con l’unico obiettivo di riuscire a migliorare la qualità della vita di ogni singolo paziente.
Qualsiasi scelta terapeutica dovrebbe esser affrontata all’interno del contesto “equipe” prima ancora di esser comunicata al paziente in modo da favorire il passaggio di informazioni più valide e dettagliate possibili. Questo favorirebbe, innanzitutto, l’instaurarsi di un rapporto di alleanza tra i vari membri dell’equipe, per poi accrescere un senso di fiducia e disponibilità di pazienti e familiari nei confronti dei professionisti che se ne prendono cura, aumentandone, così, il loro livello di compliance verso gli eventuali interventi terapeutici da proporre.
La formazione di un’equipe collaborativa, perciò, è fondamentale per una migliore riuscita nella co-costruzione di scelte terapeute adeguate per ogni singola famiglia.

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